filippo piazza
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Papers by filippo piazza
Milano e Lodi, allestita nel nuovo Polo Culturale Maria Cosway in collaborazione con il Comune di Lodi e numerose istituzioni da sempre attente alle attività culturali del territorio lodigiano.
nei “meriti di sostanza, di materia, di aria, di luce e di tono”, rappresenta
una prerogativa della scuola pittorica bresciana del Rinascimento e un
antefatto fondamentale per comprendere l’esperienza intrapresa più tardi
da Michelangelo Merisi detto Caravaggio. Un nesso che, come rilevato per
primo da Roberto Longhi e poi da una robusta tradizione critica che in parte discende dagli studi di Mina Gregori, si giustifica in virtù del lungo periodo di formazione in Lombardia di Merisi, che gli consentì di entrare in contatto con le opere di Alessandro Bonvicino detto Moretto, di Girolamo Romanino e di Giovanni Girolamo Savoldo, oltre che con quelle di Vincenzo Foppa. Si tratta di un argomento molto battuto dalla storiografia e che dunque non necessita di aggiunte, perlomeno in questa sede. Qui si intende piuttosto assestare la prospettiva sulle possibili relazioni tra il contesto storico e culturale bresciano della prima metà del XVI secolo – che costituisce l’argomento cardine di questa mostra – e la vicenda di Moretto, Romanino e Savoldo, cercando soprattutto di comprendere come si declini la loro “naturale predisposizione a tradurre in immagine le istanze ‘realistiche’ della sensibilità religiosa del tempo”, provando
al contempo a verificare quanto la resa del dato di realtà fosse apprezzata in funzione delle aspettative dei committenti. Sono interrogativi di ampia portata che richiederebbero risposte di altrettanto impegno, come del resto avvenuto in occasione di ricerche anche recenti: in questa circostanza ci si limiterà a riflettere su alcuni snodi emblematici per inquadrare la questione.
Milano e Lodi, allestita nel nuovo Polo Culturale Maria Cosway in collaborazione con il Comune di Lodi e numerose istituzioni da sempre attente alle attività culturali del territorio lodigiano.
nei “meriti di sostanza, di materia, di aria, di luce e di tono”, rappresenta
una prerogativa della scuola pittorica bresciana del Rinascimento e un
antefatto fondamentale per comprendere l’esperienza intrapresa più tardi
da Michelangelo Merisi detto Caravaggio. Un nesso che, come rilevato per
primo da Roberto Longhi e poi da una robusta tradizione critica che in parte discende dagli studi di Mina Gregori, si giustifica in virtù del lungo periodo di formazione in Lombardia di Merisi, che gli consentì di entrare in contatto con le opere di Alessandro Bonvicino detto Moretto, di Girolamo Romanino e di Giovanni Girolamo Savoldo, oltre che con quelle di Vincenzo Foppa. Si tratta di un argomento molto battuto dalla storiografia e che dunque non necessita di aggiunte, perlomeno in questa sede. Qui si intende piuttosto assestare la prospettiva sulle possibili relazioni tra il contesto storico e culturale bresciano della prima metà del XVI secolo – che costituisce l’argomento cardine di questa mostra – e la vicenda di Moretto, Romanino e Savoldo, cercando soprattutto di comprendere come si declini la loro “naturale predisposizione a tradurre in immagine le istanze ‘realistiche’ della sensibilità religiosa del tempo”, provando
al contempo a verificare quanto la resa del dato di realtà fosse apprezzata in funzione delle aspettative dei committenti. Sono interrogativi di ampia portata che richiederebbero risposte di altrettanto impegno, come del resto avvenuto in occasione di ricerche anche recenti: in questa circostanza ci si limiterà a riflettere su alcuni snodi emblematici per inquadrare la questione.
All’interno della basilica di Santa Maria Assunta a Gandino si conserva il più ampio ciclo di tele realizzato da Giacomo Ceruti (1698-1767) durante la sua prolifica attività e il più significativo nel suo percorso di pittore del sacro. Un’impresa che annovera trentadue opere, talune di dimensioni imponenti, condotta a termine in un arco di tempo altrettanto esteso che va dal 1734 al 1739. Questo insieme, già noto alla critica sebbene spesso trascurato, viene ora riesaminato sotto molti punti di vista (storico-artistico e iconografico, documentario e conservativo), approdando a risultati per certi versi sorprendenti. Leggendo il libro si potrà infatti scoprire un altro Ceruti, che sveste con piena consapevolezza i panni del “pittore della realtà” per indossare quelli, inconsueti, di “pittore classicista”. Per questa e per altre ragioni il ciclo di Gandino costituisce pertanto una tappa fondamentale del suo percorso, rappresentando una vera e propria “cerniera” tra il soggiorno in Lombardia, terminato nell’estate del 1734, e il trasferimento a Venezia e poi a Padova: i dipinti realizzati tra il 1737 e il 1739 rivelano così il profilo di un maestro che tiene il passo con la lezione dei grandi veneti a lui contemporanei.
La rigorosa ricerca sul “caso Gandino” ha portato in luce novità assolute nello studio di Giacomo Ceruti e del suo soggiorno gandinese: i nuovi elementi emersi dall’analisi delle fonti documentarie, del contesto storico e della committenza in cui matura la commissione; la prima ricognizione delle fonti figurative a stampa per la pittura sacra dell’artista; il restauro delle tele “mai toccate” di San Pietro e San Ponziano in gloria, sostenuto da Fondazione Credito Bergamasco e affiancato da una campagna di indagini scientifiche, che aprono la strada allo studio della tecnica esecutiva cerutiana; la presentazione del Ritratto di Silvestro Ponziano Patirani, il notaio che predispose il contratto per le opere gandinesi, sino ad oggi mai analizzato dal vero e che si può
annoverare tra i migliori ritratti eseguiti dal maestro milanese prima di partire alla volta di Venezia; una riflessione di taglio teologico che prende il via dalla lettura comparata dei versetti biblici riportati nei cartigli della serie dei Profeti e figure dell’Antico Testamento.
Nelle definizioni di Andrea Pozzo (“congiungere il finto col vero”, ingannano l’occhio a maraviglia”) così ben sintetizzato, il macro tema dell’illusionismo architettonico, che dialoga con le forme, le tradizioni e le diverse tecniche (tra cui lo stucco) della grande decorazione particolarmente in voga nei secoli XVII e XVIII, viene indagato in questa occasione lungo le linee delle peculiarità territoriali, delle specificità della committenza e delle consuetudini delle botteghe nei diversi centri artistici. Declinazioni territoriali e finanche locali che colloquiano in un ambito di diffusione che assume nell’ancien régime connotazioni europee e anche extraeuropee.
Lo strumento, di originaria costruzione settecentesca e proveniente dalla distrutta chiesa di Sant’Agostino a Crema (CR), da dove fu trasferito all’inizio dell’Ottocento e poi modificato, rappresenta una testimonianza unica, trattandosi, con oltre 2700 canne, di uno tra gli organi più grandi di Lombardia.
Il restauro, finanziato dal Ministero della cultura, ha permesso di ampliare le conoscenze su questa straordinaria opera, il cui recupero si pone come l’esito di un complesso percorso di tutela durato oltre quattro anni.